LA CORTE DI CASSAZIONE CONFERMA IL CARDINE DELL’AUTONOMIA PROFESSIONALE DEGLI AVVOCATI

Con la pronuncia n. 28274 del 4 novembre 2024 la Corte di Cassazione ha definitivamente chiarito che la professione forense deve intendersi quale autonoma, dunque non soggetta ad alcun vincolo di subordinazione, neppure attenuata.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato avanti alla Sezione Lavoro del Tribunale da un avvocato che, dopo diversi anni di collaborazione in uno studio legale, che gli aveva poi comunicato la volontà di non proseguire oltre la collaborazione stessa, aveva chiesto il riconoscimento della natura subordinata, benché attenuata, del rapporto lavorativo. Dopo il rigetto della domanda in primo grado e poi da parte della Corte d’Appello di Milano, l’avvocato ha proposto ricorso in Cassazione.

Rammentando anzitutto che gli indici di subordinazione rappresentano requisiti di natura giurisprudenziale, che, qualora sussistano contemporaneamente nel singolo rapporto di lavoro considerato, consentono di poterlo qualificare come subordinato, detti indici sono:

  • lo svolgimento dell’attività lavorativa presso i locali aziendali;
  • la presenza costante sul lavoro, ad orario fisso;
  • le ferie concordate;
  • l’utilizzo, per lo svolgimento dell’attività lavorativa, di strumenti di proprietà del datore di lavoro;
  • l’etero ordinazione costante da parte del datore di lavoro, alle cui disposizioni il lavoratore deve soggiacere;
  • la mancanza, in capo al lavoratore, di una propria attività e struttura imprenditoriale minima.

Ciò posto, il ricorrente aveva tentato di vedersi riconoscere la natura subordinata del rapporto intercorso per oltre tredici anni con lo studio legale, ai sensi dell’art. 2094 c.c. o, comunque, l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato ai sensi degli artt. 61 e 69 D. Lgs. 276/2003 o dell’art. 2 D. Lgs. 81/2015, nonché la declaratoria di nullità del licenziamento, con ordine di reintegra e condanna al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per violazione dell’art. 2087 c.c..

La Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha chiarito definitivamente la natura autonoma del lavoro svolto dagli avvocati negli studi associati, confermando una distinzione fondamentale tra lavoro autonomo e subordinato nei contesti professionali.

A sostegno di questa conclusione, la Corte ha identificato alcuni elementi fondamentali: intanto gli avvocati negli studi associati non sono soggetti al controllo di una gerarchia formale e, pur lavorandoin sinergiacon i colleghi, non rispondono alle direttive di un capo; la gestione del lavoro, inoltre, è autonoma, potendo gli avvocati organizzare il proprio lavoro, anche per quanto riguarda le tempistiche, in maniera del tutto indipendente. I Giudici di Legittimità hanno inoltre ricordato che sugli iscritti all’albo professionale degli avvocati grava l’incompatibilità di erogare la prestazione in forma subordinata, ed infatti, qualora un avvocato acceda a un impiego subordinato egli viene sospeso dall’attività professionale per tutto il tempo corrispondente alla sua condizione di lavoratore subordinato.

Aggiungono poi che, nel caso concreto, l’avvocato non era vincolato dalle determinazioni dei soci e poteva dissentire dalle stesse, potendo assumere iniziative personali; il vincolo dell’esclusiva non implicava sovraordinazione dei soci sul componente non socio, posto che gli incarichi di difesa e assistenza legale erano acquisiti dallo studio e da questo distribuiti a i singoli professionisti, i quali avevano sì un obbligo di esclusiva, nel senso che non potevano gestire una propria clientela collaterale a quella dello Studio, ma potevano anche proporre nuovi clienti allo studio stesso; il fatto che i singoli professionisti fossero poi sottoposti a regole sul funzionamento del rapporto con i clienti, e al connesso obbligo di esclusiva, decise dallo studio rispondeva ad esigenze di coordinamento dell’attività prestata dallo studio medesimo; anche quanto alle ferie, il fatto che i singoli avvocati dovessero organizzarsi per concordarle tra loro, senza alcuna autorizzazione da parte dello studio di un vero e proprio piano ferie, rispondeva all’esigenze di assicurare continuità operativa allo studio.

Già negli anni 90 (si veda, ad esempio, la sentenza n. 5389/1994) la Corte di Cassazione aveva avuto occasione di precisare che i professionisti che prestano la propria attività all’interno di uno studio legale svolgono un’attività autonoma, e non subordinata: il professionista lavora in modo indipendente, rispondendo a principi etici e deontologici propri della categoria, senza la necessità di essere inquadrato in una rigida gerarchia aziendale.

Con questa ulteriore pronuncia, pertanto, i Giudici di Legittimità hanno evidenziato come la professione forense sia disciplinata dalla normativa speciale che ne esclude la subordinazione, ribadendo il ruolo centrale offerto dall’art. 3 del R.D.L. n. 1578/1933 e dell’art. 18 della L. 247 del 2012. Entrambe le norme coinvolte sanciscono l’incompatibilità tra l’esercizio della professione forense e il lavoro subordinato, dal che consegue che la libertà professionale di un avvocato rappresenta un requisito imprescindibile e che come tale non può essere risolto nel rapporto di dipendenza.

Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente è stata respinta; questa aveva sostenuto che l’esclusione dalle professioni intellettuali dalle tutele riservate ai lavoratori subordinati fosse in contrasto con i principi sanciti dagli artt. 3, 4 e 35 Cost.. I Giudici, invece, richiamando le precedenti pronunce della Corte Costituzionale, sottolineano come l’incompatibilità tra la professione forense e il lavoro subordinato non violi i principi di uguaglianza, ma al contrario tuteli l’indipendenza dell’esercizio professionale.

Deve quindi ritenersi granitico che una collaborazione professionale, benché continuativa e costante nel tempo, non comporta, di per sé sola, la sussistenza di un vincolo di subordinazione del professionista nei confronti dello studio legale, poiché il professionista stesso mantiene comunque la propria autonomia e libertà organizzativa, il che lo distingue dal lavoratore subordinato.