IL RECESSO NEL CONTRATTO CON IL PROFESSIONISTA:

L’AVVOCATO, PROFESSIONISTA COME GLI ALTRI?

Nell’ambito di un mandato professionale, sia il professionista che il cliente possono recedere dal contratto, allorché viene meno il rapporto di fiducia che costituisce la base del rapporto professionale.

In linea generale, la fattispecie del recesso del cliente e del professionista trova la sua disciplina nell’art. 2237 c.c. che così recita: “Il cliente può recedere dal contratto, rimborsando al prestatore d’opera le spese sostenute e pagando il compenso per l’opera svolta. Il prestatore d’opera può recedere dal contratto per giusta causa. In tal caso egli ha diritto al rimborso delle spese fatte e al compenso per l’opera svolta, da determinarsi con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente. Il recesso del prestatore d’opera deve essere esercitato in modo da evitare pregiudizio al cliente”.

Dunque, seguendo il dettato normativo, cogliamo subito lo squilibrio tra le parti del rapporto.

Da un lato troviamo il cliente, che può recedere liberamente dal contratto (cosiddetto recesso ad nutum), ed è tenuto unicamente al pagamento del compenso per l’attività svolta dal professionista e al rimborso delle spese da quest’ultimo anticipate; peraltro, secondo l’orientamento giurisprudenziale (Cass. civ. n. 25668 del 15 ottobre 2008) il cliente può recedere anche nel caso in cui nel mandato fosse previsto un termine finale; l’apposizione del suddetto termine, infatti, non esclude automaticamente la facoltà di recesso, ma vale ad assicurare al cliente che il prestatore d’opera sia vincolato per un certo tempo nei suoi confronti. La presenza di un termine preclude la facoltà di recesso solo qualora si dimostri che l’intenzione delle parti, con l’apposizione del termine, era nel senso di escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita.

Dall’altro lato abbiamo, invece, il professionista che, al contrario, è vincolato al suo incarico non solo dall’obbligo di tutelare gli interessi del cliente, al quale non deve arrecare pregiudizio, ma anche dall’istituto della “giusta causa”, solo alla presenza della quale ha la facoltà di recedere dal contratto.

L’istituto del recesso per giusta causa, previsto dall’art. 2119 c.c. in relazione al rapporto di lavoro subordinato, infatti, è contemplato anche con riferimento al contratto di prestazione d’opera professionale (art. 2237 c.c.). La giusta causa si configura come un fatto imputabile ad una delle parti che impedisca la prosecuzione anche temporanea del rapporto; è costituita da un comportamento estremamente grave, tale da interrompere ogni legame di fiducia che dovrebbe sussistere tra le parti del contratto. La giusta causa è dunque un evento sopravvenuto, imputabile al dolo o alla grave colpa di una delle due parti, che consente di risolvere ogni rapporto in essere tra le stesse.

Il professionista deve, pertanto, non solo dimostrare la giusta causa del recesso, ma per ottenere il pagamento del compenso per le sue prestazioni, ai sensi dell’art. 2237, comma 2 c.c., ha l’onere di dimostrare l’esistenza del credito, quindi anche il risultato utile derivato al cliente dallo svolgimento della sua opera.

Per ciò che concerne la professione forense, pare però che ci sia un’eccezione.

Infatti, si va sempre più consolidando l’indirizzo giurisprudenziale nel senso che è permesso all’avvocato di recedere dal mandato professionale anche in assenza di una giusta causa, riconoscendo al difensore il diritto agli onorari relativi all’attività svolta fino al momento del recesso (Cass. n. 36071 del 9 dicembre 2022; Cass. n. 29745 del 29 dicembre 2020).

In particolare, è interessante una recente pronuncia della Corte di Cassazione (n. 7180 del 10 marzo 2023) che così recita: “Il contratto di patrocinio – con cui il professionista assume l’incarico di rappresentare la parte in giudizio – non è interamente riconducibile allo schema delineato dal codice civile, negli articoli dal 2229 a 2238, per il contratto d’opera intellettuale, proprio in quanto trova la sua disciplina speciale negli artt. da 82 a 87 c.p.c. e dalle norme speciali in materia di professione di avvocato e dei suoi compensi. In particolare, l’art. 85 c.p.c. prevede esplicitamente che “la procura può essere sempre revocata e il difensore può sempre rinunciarvi”, seppure preveda anche che la revoca e la rinuncia non abbiano “effetto nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore” : dalla formulazione della norma risulta allora evidente che, in deroga agli art. 2119 e 2237 c.c., il recesso dell’avvocato dal mandato è sempre liberamente esercitabile senza necessità della ricorrenza di una giusta causa, seppure, per scongiurare le conseguenze pregiudizievoli all’assistito per la perdita della difesa tecnica e alla controparte per la mancanza di un titolare di ius postulandi, l’attività mandata della rappresentanza in giudizio prosegua ad ogni effetto fino alla nomina di nuovo difensore. In corrispondenza, è ugualmente e chiaramente assicurato all’assistito il diritto alla revoca del mandato al suo difensore, senza alcun limite, soltanto per essere venuto meno il rapporto fiduciario”.

Sembrerebbe, pertanto, che l’Avvocato, a differenza di altri professionisti, possa recedere dal mandato professionale anche in assenza di una giusta causa e conservare comunque il diritto agli onorari relativi all’attività svolta fino al momento del recesso, salvo il risarcimento del danno di cui, tuttavia, è il cliente che deve provare l’esistenza.

In linea con tale scelta si pone anche la disciplina dell’art. 32 del Codice Deontologico Forense in materia di rinuncia al mandato: “l’avvocato ha la facoltà di recedere dal mandato, con le cautele necessarie per evitare pregiudizi alla parte assistita”; si prevede poi che l’avvocato dia un “congruo preavviso” e informi la parte “di quanto necessario per non pregiudicarne la difesa“. Adempiute le formalità relative alla comunicazione “l’avvocato è esonerato da ogni altra attività, indipendentemente dall’effettiva ricezione della rinuncia”. E “non è responsabile per la mancata successiva assistenza, qualora non sia nominato in tempi ragionevoli altro difensore”. Infine, conserva l’obbligo di informare la parte delle “comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli”.

Per la Suprema Corte risulta, quindi, confermata la soluzione circa la libera recedibilità dal mandato anche ad opera dell’avvocato, il quale pare unicamente tenuto a preservare il cliente da pregiudizi derivanti dalla propria decisione di recedere dal rapporto d’opera.

Lo stesso non può dirsi per tutte le altre professioni intellettuali (si pensi, tra gli altri, agli architetti o ai geometri), per i quali il recesso ingiustificato dal contratto giustifica la condanna al risarcimento del danno, posto che l’anticipato scioglimento del rapporto viene considerato di per sé un evento potenzialmente generatore di danno, avendo turbato e compromesso le aspettative economiche della parte adempiente (Cass. n. 9996 del 24 maggio 2004).