LO STALKING GIUDIZIARIO DELL’AVVOCATO

Lo stalking giudiziario è una forma di atti persecutori ex art. 612 bisc.p., le cui azioni moleste consistono in reiterate pretese risarcitorie in sede civile, amministrativa ed anche in denunce-querele del tutto infondate, volte a creare nella vittima uno stato di ansia e paura; per integrare il reato di stalking giudiziario, le condotte devono ripetersi nel tempo e costringere la vittima a cambiare le proprie abitudini di vita.

Già con la sentenza n. 3831/2017, la Corte di Cassazione aveva riconosciuto la configurabilità del reato di atti persecutori perpetrati attraverso “un utilizzo degenerato dello strumento giudiziario a fini vessatori”.

Da un punto di vista strettamente civilistico, il reato di stalking giudiziario assume la medesima finalità deterrente della lite temeraria disciplinata dall’art. 96, comma 3 c.p.c.; la Suprema Corte, infatti, ha affermato che “l’art. 96, comma 3, c.p.c., introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo, e preservare la funzionalità del sistema giustizia con la censura di iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie, conseguentemente perseguendo indirettamente interessi pubblici quali il buon funzionamento e l’efficienza della giustizia, e, più in particolare, la ragionevole durata dei processi mediante lo scoraggiare cause pretestuose” (Cass. SS.UU. 4853/2021).

Questo anche per l’evidente ragione che eccessive ed infondate iniziative giudiziarie intraprese contro qualcuno, oltre a sovraccaricare ulteriormente la macchina giudiziaria già sovraccarica, inevitabilmente costringono quel qualcuno a difendersi, e quindi a far fronte ad esborsi economici che possono nel tempo divenire anche molto rilevanti.

Un’aggravante del reato sopra considerato si ha senza dubbio nel caso in cui l’agente sia un Avvocato, poiché certamente consapevole delle negative conseguenze della propria condotta.

Già con la sentenza n.11429/2020 la Corte di Cassazione ha, infatti, stabilito che è imputabile per il reato di stalking giudiziario l’Avvocato che, usando in modo strumentale la sua qualifica, intenta un numero elevato di cause infondate, al fine di aggredire e molestare; nel caso colà deciso, in seguito a tale condotta il legale è stato sospeso dalla professione per un intero anno.

Le domande risarcitorie o le denunce devono essere reiterate: il delitto di atti persecutori, infatti, è sempre integrato da una pluralità di condotte (secondo un orientamento della Corte di Cassazione, potrebbero essere sufficienti anche due sole condotte moleste); inoltre, le pretese fatte valere in giudizio devono essere palesemente infondate e strumentali.

Tutto ciò allo scopo non solo di condizionare la vita, la libertà e le abitudini della vittima, ma anche di vendicare presunti torti subiti attraverso azioni processuali di lunga durata e dai costi elevati sino a poter procurare il dissesto economico della vittima.

L’8 settembre 2023 la Corte di Cassazione ha depositato un’ulteriore pronuncia sul tema (sentenza n. 36994/2023), stabilendo ancora una volta che è configurabile lo stalking giudiziario nei confronti del legale che “perseguita” ex clienti con una sequela di azioni civili per il pagamento di parcelle, e denunce penali poi rivelatesi in gran parte infondate.

La Suprema Corte ha sottolineato che il disvalore della condotta posta in essere è ancora maggiore perché proviene da un Avvocato che è ben consapevole dell’effetto che l’abuso del processo determina sulla vita delle persone.

Nello specifico, la Suprema Corte ha cassato con rinvio una pronuncia resa nel giugno 2022 dalla Corte d’Appello di Milano, la quale aveva assolto l’imputato/Avvocato dal delitto di atti persecutori nei confronti di una famiglia di imprenditori suoi ex clienti; anche l’azienda di famiglia si era costituita parte civile in giudizio, per via delle ripercussioni in ambito reputazionale che le vittima avevano patito.

Una delle vittime, peraltro, aveva documentato tramite certificato medico rilasciato dal reparto di psichiatria di una struttura ospedaliera un disturbo post traumatico da stress e di tensione legata alle vicende giudiziarie in corso, con disturbi percettivi.

Uno dei componenti del nucleo familiare, inoltre, aveva sofferto osservando dolori e ambasce dei propri genitori (ottantenni), colpiti dalla vicenda giudiziaria per un intero decennio, e in un’epoca della vita di maggiore e indubbia vulnerabilità, interrompendo le proprie frequentazioni sociali a Monza, temendo incontri imbarazzanti, patendo un grave turbamento piscologico e costrizione ad alterare le abitudini di vita.

I ricorrenti, trovatisi alle prese con decine e decine di procedimenti giudiziari, oltre che con epiteti offensivi loro rivolti dall’imputato in molti dei suoi atti, hanno pertanto narrato dell’ansia per il loro futuro, oltre che di quello dell’azienda, viste anche le ingenti somme di denaro per cui questa era stata citata in giudizio dall’imputato, oltre che di modifiche di abitudini di vita personale e lavorativa.

La Corte d’Appello, sottolinea la Suprema Corte, ha errato ritenendo sussistente solo la patologia di uno dei ricorrenti che l’aveva attestata tramite certificato medico, e non anche degli altri, che comunque avevano subito, nel corso di molti anni, i contraccolpi derivanti dalla strategia di accanimento processuale dell’imputato, che si è tradotta nel reato di atti persecutori e che sono riconducibili ad uno degli eventi di danno descritti dalla fattispecie incriminatrice.

L’assunto da cui è partita la Corte territoriale, infatti, è in netto contrasto con la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, secondo la quale “in tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata” (sentenza n. 17795 del 2017).

Osserva inoltre la Cassazione come siano gli stessi Giudici dell’appello a evidenziare, nel corso dell’intero e pur dettagliato iter motivazionale, i riflessi delle condotte dell’imputato su tutti i membri della famiglia e, segnatamente, sulla loro tranquillità psichica. Ciò anche considerando che a fronte delle complessive richieste economiche avanzate in giudizio dall’Avvocato, ammontanti a ben oltre il milione di euro, il riconoscimento giudiziale si riduceva a poche decine di migliaia di euro.

In tale prospettiva, ribadisce la Corte che “in tema di atti persecutori, costituiscono molestie, elemento costitutivo del reato, le azioni reiteratamente promosse in sede civile (nella specie, ventitre in dieci anni), in base ad un’unica ragione contrattuale, da un asserito creditore che si era precostituito titoli esecutivi fondati su atti da lui falsificati e si era avvalso, quindi, di fatti consapevolmente inventati in funzione dell’unilaterale e ingiustificata modifica aggravativa della posizione del debitore, realizzata con abuso del processo, atteso che la falsificazione dei titoli e la reiterazione dell’azione giudiziaria risulta causativa di uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612 c.p.” (sentenza n. 17171 del 2023).

Si tratta di conclusioni, applicabili al caso di specie, razionalmente fondate sull’idoneità dello stillicidio di azioni giudiziarie ad alterare, anche in termini gravi, la serenità dei destinatari, per effetto del grave stato di ansia che possono provocare.

Quanto all’elemento soggettivo del reato” prosegue la Suprema Corte “ossia quanto alla consapevolezza dei riflessi della condotta ascritta all’imputato sulle vite dei membri della famiglia destinataria di siffatte iniziative, va considerato che l’imputato è avvocato egli stesso: ciò che, peraltro, colora la condotta volta ad abusare dello strumento processuale, e ad abusare del diritto stesso, più generale; centrato, in tal senso, è il riferimento della Corte territoriale al divieto di atti emulativi, di cui all’art. 833 c.c.– di un disvalore ancora maggiore, come correttamente osservato dai Giudici di merito”.

La sentenza impugnata è stata quindi annullata limitatamente alle statuizioni assolutorie, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.